lunedì 2 luglio 2007

NEL SUO NOME - capitolo 3

"Ma non puoi stare a casa tua con i tuoi amici? Che bisogno c'è di andare così lontano?": l'incomprensione e lo stupore di chi non riesce a capire cosa ti porta a partire... Attorno a te tutti cominciano a guardarti strano. Ti senti diverso e capisci di non appartenere alla categoria degli "originali", di quelli che non possono fare le vacanze dove le fanno tutti gli altri, nelle solite località di villeggiatura, e devono assolutamente, a tutti i costi, stupire. No, tu appartieni ad un gruppo diverso, ad una minoranza per la quale la parola "originale" non è affatto adatta. Ti guardano come se avessi qualche rotella che non va, come se qualcosa in te non fosse del tutto a posto. Camminavo per la strada mentre lo zaino aspettava già pronto l'alba del giorno dopo, e speravo sinceramente di non incontrare nessuno, di non arrossire di nuovo raccontando il dove e il quando del mio strano viaggio, ma soprattutto non dover sostenere il "perché?" che tutti mi avrebbero rivolto."

Questa è la terza puntata (di dieci) del documentario "Nel suo nome", tratto da una storia vera, scritto e interpretato da Marco Cortesi, con la consulenza storica di Lucia Zacchini, in onda ogni martedì su control-alt-canc.

terza puntata: durata 7,49 min
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Ringraziamo ARCOIRIS TV per la diffusione del filmato.

2 commenti:

Hermano querido ha detto...

Un popolo è un Io


Ogni popolo è come un individuo. E’ un individuo. Questa è la norma fondamentale da tenere presente. E l’individuo, quali che siano le sue capacità intellettuali, le sue conoscenze, i suoi sentimenti, pensa e agisce sempre secondo una logica. (Come tutti sappiamo, anche nel delirio di chi ha perso il principio di realtà sussistono dei legami logici). Ogni popolo, dunque, ha, come l’individuo, un suo Io, punto di riferimento della sua identità, indispensabile per potersi sempre riconoscere al centro della vita, al centro del tempo e dello spazio, dal quale stabilisce quale sia il Nord e il Sud, con una memoria del passato in rapporto alla sua data di nascita, una previsione del futuro senza il quale non potrebbe orientarsi per sussistere neanche un momento. Questo Io non può essere messo a rischio senza che tutta la personalità ne venga disgregata. Cosa questa che i governanti quasi sempre dimenticano, ritenendo di poter plasmare i popoli secondo i loro propri desideri, e secondo ciò che ritengono sia meglio per i popoli stessi. Ma nessun individuo, neanche il più disturbato mentalmente, accetta di essere deprivato dell’Io perché sa che da questo dipende la sua sopravvivenza come essere umano. Subentra qui una ulteriore riflessione, anch’essa fondamentale. Per una serie di motivi che per ragioni di brevità sono costretta a lasciare alla vostra intuizione, i governanti occidentali sono portati a dare oggi primaria importanza ai bisogni organici, alla sopravvivenza biologica: la fame, le malattie, i bambini... Ma se fossero davvero questi i bisogni primari, la specie umana sarebbe identica alle altre specie animali, le quali appunto hanno l’unico scopo di sopravvivere. E per giunta questa specie pericolosa per la .Natura in quanto si moltiplica devastando il Pianeta. Per l’uomo invece la sopravvivenza organica è strumento indispensabile per i propri scopi e non la sua meta. Di questo non c’è bisogno di dimostrazione, in quanto tutta la storia dell’umanità lo testimonia. Tuttavia, se qualche prova fosse necessaria, non abbiamo che da guardare allo stesso strumento encefalico di cui la Natura ha fornito l’Homo Sapiens. L’eccesso di capacità cognitiva, le connessioni neuroniche che generano la memoria, la proiezione quasi totale all’esterno dell’organismo (il linguaggio è già una proiezione all'esterno) sono in funzione di una vita che va quasi totalmente al di là dei bisogni organici, e che crea dei bisogni altrettanto organici e più determinanti di quelli che provvedono
all’esistenza vegetativa.

Mi sono soffermata su questo tema, che pure dovrebbe essere soltanto una premessa all’argomento che ci sta a cuore, perché in realtà la strategia politica dell’Occidente costituisce un errore gravissimo non soltanto nei confronti dei popoli altri (poveri, in via di sviluppo, o come altro si vuole chiamarli cercando di evitare di pronunciarne il nome) ma anche nei confronti di noi stessi. Sebbene l’antico principio del panem et circences abbia dimostrato innumerevoli volte di essere sbagliato, in quanto non regge alla lunga durata, sfociando o in una rivoluzione o nella fine di una cultura, coloro che guidano, in un campo o nell’altro, la politica mondiale, sembrano più che mai convinti che i bisogni dell’Uomo (o debbano essere) quelli del “pane” e della “pace”. Il che significa appunto prefiggersi di ottenere un organismo satollo, e rilassato nella “non tensione”.
Questo tipo di politica, per quanto possa essere in buona fede (ma non ne sono sicura), dettata dai buoni sentimenti che si riassumono nella solidarietà, nel “complesso di salvazione” che assilla il mondo cristiano, è tuttavia terribilmente ingiusto, oppressivo, e pone le premesse per uno stato di continua, feroce conflittualità, cui però abbiamo dato il nome di “pace”. Si porrebbe qui il problema se “tensione” si configuri necessariamente come “aggressività”, problema che lascio alla vostra riflessione, limitandomi però a segnalarvi che non si può e non si deve sottrarsi a questo interrogativo fondamentale. Lo stato di quiete è davvero quello che soddisfa l’Uomo?

TRATTO DA "ANTROPOLOGIA CULTURALE
E GEOPOLITICA NELLO STUDIO
DEI CONFLITTI"

di Ida Magli

Anonimo ha detto...

Veramente interessante!
Direi però che mai come adesso sarebbe utile parlare di popolo e di persone come ii(in inglese esiste il termine myselves). Credo che definire un popolo con categorie comuni come valori, etnicità, credenze, religione sia solamente un modo per controllare e imprigionare in una rappresentazione statica culture che si incrociano in unaprocesso di mutamento. Mai come oggi bisogna affermare come caratteristica che ci accomuna uguaglianza e rispetto delle diversità. Oggi nel mondo non ci si capisce perchè non si è abituati a relazionarsi con l'altro da sè. Viaggiano merci(armi,droga,pubblicità) e informazioni ma alle persone soprattutto quelle economicamente inferiori viene negato il diritto di muoversi liberamente.
Poi c'è questo etnocentrismo strisciante che si esprime anche nel turismo. C'è chi parte. Va in villaggi turistici e crede di essersi spostato. Invece fa quello che sempre ha fatto. parla la stessa lingua, mangia lo stesso cibo, ha le stesse comodità. Isole felice per deportati inconsapevoli.